Sentenza n. 93 del 2022

SENTENZA N. 93

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 202, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dal Tribunale ordinario di Udine, sezione seconda civile, nel procedimento per dichiarazione dello stato di insolvenza di Zoè società cooperativa a responsabilità limitata in liquidazione, con ordinanza del 25 gennaio 2021, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 marzo 2022 il Giudice relatore Stefano Petitti;

deliberato nella camera di consiglio del 24 marzo 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 25 gennaio 2021, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Udine, sezione seconda civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 202, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), «nella parte in cui prevede che il tribunale deve pronunciare sentenza di accertamento dello stato di insolvenza della società cooperativa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa anche in assenza dei requisiti soggettivi richiesti per la dichiarazione del fallimento di un imprenditore costituito in altra forma giuridica e, in particolare, di una società lucrativa».

Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata violerebbe gli artt. 3 e 45 della Costituzione, per la disparità di trattamento che determina in pregiudizio della singola società cooperativa e per i negativi riflessi che ne derivano sulla cooperazione in generale.

1.1.– Il giudice a quo espone di dover provvedere sull’istanza avanzata dal commissario liquidatore per l’accertamento dello stato di insolvenza della Zoè società cooperativa a responsabilità limitata, posta in liquidazione coatta amministrativa ai sensi dell’art. 2545-terdecies del codice civile con delibera della Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia in data 3 luglio 2020.

L’ordinanza di rimessione precisa trattarsi di una società già operativa nel commercio di fiori e piante, con attivo e ricavi nulli, o assai modesti, e un passivo appena superiore ai tremila euro, quindi di una società che, ove fosse stata costituita in forma lucrativa, non sarebbe stata passibile di fallimento, poiché di dimensioni ed esposizione largamente inferiori a quelle stabilite dagli artt. 1, secondo comma, e 15, nono comma, della legge fallimentare.

1.2.– Il Tribunale di Udine evidenzia che tali limiti soggettivi di fallibilità non sono richiamati dall’art. 202 della legge fallimentare a proposito dell’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza dell’impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, né dall’art. 195 della legge medesima riguardo all’accertamento dello stato di insolvenza anteriore all’apertura della liquidazione.

Rammentato che, ai sensi degli artt. 203 e 237 della legge fallimentare, l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza delle società in liquidazione coatta amministrativa comporta l’applicabilità delle disposizioni sulle revocatorie fallimentari e sugli effetti penali nel fallimento, il giudice a quo reputa ingiustificato che questo «inasprimento delle norme di diritto comune» possa prescindere per tali società – tra le quali appunto le cooperative – dall’entità degli interessi coinvolti nella crisi di impresa.

1.3.– La disparità di trattamento sarebbe acuita dalla circostanza che, per effetto della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), le imprese non fallibili sono assoggettabili a liquidazione del patrimonio, procedura nella quale non sono previste speciali azioni recuperatorie, né configurabili fattispecie di reato, simili a quelle fallimentari.

Il quadro normativo non sarebbe destinato a evolvere con l’entrata in vigore del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), attesa la corrispondenza tra gli artt. 297, comma 1, e 298, comma 1, del medesimo decreto legislativo e gli artt. 195, primo comma, e 202, primo comma, della legge fallimentare.

1.4.– Sulla base di queste considerazioni, il rimettente prospetta l’estensione per consequenzialità della declaratoria di illegittimità costituzionale, da un lato, all’art. 195, primo comma, della legge fallimentare e, dall’altro, agli artt. 297, comma 1, e 298, comma 1, del d.lgs. n. 14 del 2019.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o, in subordine, non fondate.

2.1.– Le questioni sarebbero inammissibili perché il giudice a quo si sarebbe arrestato a un’interpretazione letterale della disposizione censurata, mancando di svolgere «ogni ponderazione possibile del complessivo quadro normativo e giurisprudenziale in cui essa s’inserisce».

In particolare, il rimettente avrebbe trascurato quanto rilevato dalla giurisprudenza di legittimità sulla soglia minima di esposizione debitoria, cioè che essa è fissata dal legislatore non per l’accertamento dello stato di insolvenza, ma per la dichiarazione di fallimento, alla quale ultima non si fa luogo solo per ragioni di economia processuale, recessive di fronte all’interesse pubblico sotteso alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.

2.2.– Le questioni sarebbero comunque non fondate per lo statuto differenziato della società cooperativa, quale deriva appunto dall’interesse pubblico connesso allo scopo mutualistico, in linea con le direttive dell’art. 45 Cost.

Ne risulterebbe giustificato «anche un inasprimento dei controlli e della tutela in favore dei creditori e della generalità», che, nell’ipotesi di accertata insolvenza, «avviene proprio prevedendo l’applicabilità del regime delle azioni revocatorie e della disciplina penale fallimentari», giacché, in tal modo, «viene incentivato l’uso corretto della cooperazione».

2.3.– In vista della camera di consiglio, l’Avvocatura ha depositato una memoria illustrativa, tornando a evidenziare la specialità dello statuto delle società cooperative, permeato da un interesse generale che, mentre promuove la concessione di benefici e agevolazioni di varia natura, anche fiscale, nel contempo determina vincoli economici e operativi, segnatamente in ordine alla destinazione degli utili e alla devoluzione del patrimonio.

L’interesse pubblico per un impiego corretto e non abusivo della forma cooperativa – il medesimo interesse che fonda il sistema di vigilanza amministrativa sulle società mutualistiche e che spiega l’assoggettabilità delle stesse alla procedura di liquidazione coatta – giustificherebbe la disposizione censurata al metro degli artt. 3 e 45 Cost., poiché questa si limiterebbe a estendere nella fase patologica della crisi di impresa la maggiore incisività dei controlli che accompagna l’intera vita del tipo societario.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 39 del 2021), il Tribunale ordinario di Udine, sezione seconda civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 202, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), «nella parte in cui prevede che il tribunale deve pronunciare sentenza di accertamento dello stato di insolvenza della società cooperativa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa anche in assenza dei requisiti soggettivi richiesti per la dichiarazione del fallimento di un imprenditore costituito in altra forma giuridica e, in particolare, di una società lucrativa».

1.1.– Il giudice a quo riferisce di dover provvedere sull’istanza di accertamento dello stato di insolvenza di una società cooperativa – già posta in liquidazione coatta amministrativa ai sensi dell’art. 2545-terdecies del codice civile –, le cui dimensioni economico-patrimoniali e la cui sofferenza debitoria non raggiungono le soglie di fallibilità stabilite dagli artt. 1, secondo comma, e 15, nono comma, della legge fallimentare.

Ad avviso del rimettente, esponendo la cooperativa “sotto-soglia” a un accertamento giudiziario dello stato di insolvenza, viceversa precluso per l’impresa lucrativa di analoga entità, la disposizione censurata violerebbe gli artt. 3 e 45 della Costituzione, perché la disparità di trattamento non avrebbe giustificazione alcuna e contraddirebbe il favor legis per lo sviluppo della cooperazione.

1.2.– Posto che l’accertamento dello stato di insolvenza previsto dall’art. 202 della legge fallimentare comporta l’applicabilità delle disposizioni sulle revocatorie fallimentari e sugli effetti penali nel fallimento, il Tribunale di Udine reputa illogico che questo «inasprimento delle norme di diritto comune» possa operare per società cooperative non fallibili in concreto, tanto più alla luce della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), che assoggetta le imprese insuscettibili di fallimento alla liquidazione del patrimonio, procedura non caratterizzata da azioni recuperatorie e fattispecie di reato paragonabili a quelle fallimentari.

Sull’assunto che gli evocati parametri siano lesi per analoghe ragioni anche dall’art. 195 della legge fallimentare riguardo all’accertamento dello stato di insolvenza anteriore all’apertura della liquidazione coatta amministrativa nonché, in prospettiva della loro futura entrata in vigore, dagli artt. 297, comma 1, e 298, comma 1, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), il rimettente ipotizza che la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 202, primo comma, della legge fallimentare possa essere estesa, per consequenzialità, a queste ulteriori disposizioni.

2.– Intervenuto in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, prima ancora di contestare la fondatezza delle questioni, ne ha eccepito l’inammissibilità.

Secondo la difesa statale, il rimettente si sarebbe fermato a un’interpretazione letterale della disposizione censurata e avrebbe mancato di svolgere «ogni ponderazione possibile del complessivo quadro normativo e giurisprudenziale in cui essa s’inserisce».

In particolare, il Tribunale di Udine non avrebbe considerato le indicazioni della giurisprudenza di legittimità sulla soglia minima di indebitamento, fissata dal legislatore non per l’accertamento dello stato di insolvenza, ma per la dichiarazione di fallimento, e ispirata a finalità di economia processuale recessive di fronte all’interesse pubblico sotteso alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.

3.– Lo scrutinio di questa eccezione di inammissibilità richiede una pur sintetica illustrazione del quadro normativo e giurisprudenziale, che l’Avvocatura generale dello Stato assume trascurato dal giudice a quo.

3.1.– Ai sensi dell’art. 195, primo comma, della legge fallimentare, «[s]e un’impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento si trova in stato di insolvenza, il tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale, su richiesta di uno o più creditori, ovvero dell’autorità che ha la vigilanza sull’impresa o di questa stessa, dichiara tale stato con sentenza».

Ai sensi dell’art. 202, primo comma, della legge fallimentare – disposizione oggi censurata –, «[s]e l’impresa al tempo in cui è stata ordinata la liquidazione, si trovava in stato d’insolvenza e questa non è stata preventivamente dichiarata a norma dell’art. 195, il tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale, su ricorso del commissario liquidatore o su istanza del pubblico ministero, accerta tale stato con sentenza in camera di consiglio, anche se la liquidazione è stata disposta per insufficienza di attivo».

Le due disposizioni contemplano quindi l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza – rispettivamente – anteriore e successivo all’apertura della liquidazione coatta amministrativa, con identità di effetti, individuati dagli artt. 203 e 237 della legge fallimentare.

Infatti, l’art. 203 stabilisce che, «[a]ccertato giudizialmente lo stato d’insolvenza a norma degli articoli 195 o 202», è applicabile la disciplina fallimentare degli atti pregiudizievoli ai creditori; l’art. 237 dispone che «[l]’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza a norma degli articoli 195 e 202 è equiparato alla dichiarazione di fallimento» ai fini dell’applicazione della disciplina dei reati fallimentari.

3.2.– Rispetto a quello che si svolge in sede amministrativa, l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza ha autonomia di procedimento e di effetti, come questa Corte ha avuto modo di sottolineare a proposito della decorrenza della prescrizione delle azioni revocatorie.

L’accertamento del tribunale «non costituisce, infatti, una inutile duplicazione della valutazione dell’autorità governativa di vigilanza effettuata in sede di emissione del decreto di messa in liquidazione coatta amministrativa, in quanto non è irragionevole che tale valutazione compiuta dall’autorità governativa abbia una valenza minore, per funzione ed effetti, rispetto al successivo accertamento giudiziario dello stato di insolvenza» (ordinanza n. 362 del 2007).

Invero, «l’accertamento giurisdizionale dello stato di insolvenza non è assimilabile alla valutazione delle condizioni economiche dell’impresa effettuata dall’autorità governativa di vigilanza», posto che «il decreto di liquidazione coatta amministrativa è emesso all’esito di un procedimento amministrativo il quale, a differenza dell’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza, non offre le garanzie del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa, né produce gli effetti del giudicato» (ancora ordinanza n. 362 del 2007).

3.3.– Il complesso normativo degli artt. 195 e 202 della legge fallimentare si riferisce anche alle società cooperative, in quanto soggette a liquidazione coatta amministrativa per causa di insolvenza.

Infatti, nell’ambito della disciplina delle cooperative, l’art. 2545-terdecies, primo comma, cod. civ. dispone che, «[i]n caso di insolvenza della società, l’autorità governativa alla quale spetta il controllo sulla società dispone la liquidazione coatta amministrativa», aggiungendo che «[l]e cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento» (vale al riguardo il criterio di priorità tra le procedure, stabilito nel secondo comma dello stesso art. 2545-terdecies cod. civ., in aderenza alla regola generale di concorso posta dall’art. 196 della legge fallimentare).

3.4.– Per l’art. 1, secondo comma, della legge fallimentare, pur se esercita un’attività commerciale, l’imprenditore non è fallibile ove dimostri il possesso congiunto dei tre requisiti indicativi della modesta entità dell'impresa, concernenti l’attivo patrimoniale (lettera a), i ricavi lordi (lettera b) e l’esposizione debitoria (lettera c).

L’art. 15, nono comma, della legge fallimentare dispone che «[n]on si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila», in tal modo aggiungendo alla soglia di fallibilità riguardante l’esposizione debitoria, di cui alla lettera c) del secondo comma dell’art. 1 (ammontare di debiti «anche non scaduti» non superiore ad euro cinquecentomila), una soglia di fallibilità più specifica, attinente alla sofferenza debitoria («debiti scaduti e non pagati»).

I criteri di identificazione dell’imprenditore fallibile si riferiscono quindi all’entità dell’impresa, all’organizzazione dei mezzi in essa impiegati e alle ripercussioni che il suo dissesto produce nell’economia generale, come indica la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 198 del 2009 e n. 570 del 1989).

3.5.– La Corte di cassazione ha affermato che l’esclusione della dichiarazione di fallimento prevista dall’art. 15, nono comma, della legge fallimentare «introduce un’eccezione alla regola della fallibilità delle imprese, come tale insuscettibile di applicazioni analogiche a ipotesi (dichiarazione d’insolvenza di impresa non fallibile) diverse da quella regolata (dichiarazione di fallimento dell’impresa insolvente)» (sezione prima civile, sentenza 22 aprile 2013, n. 9681).

La medesima pronuncia nomofilattica ha osservato che tale eccezionale previsione di non fallibilità – la quale «non contraddice lo stato d’insolvenza dell’impresa e non lo esclude» – «risponde ad esigenze di economia processuale che rendono ingiustificati i tempi e i[n] costi di una procedura fallimentare nel caso di esposizioni debitorie minori», esigenze di risparmio «che non possono essere automaticamente estese all’istituto della liquidazione coatta amministrativa, connotato da ragioni di pubblica utilità».

4.– L’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa statale imputa al Tribunale di Udine di non avere considerato gli argomenti sviluppati dalla sentenza della Corte di cassazione n. 9681 del 2013 e di avere pertanto isolato la censurata disposizione dal quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

4.1.– L’eccezione non è fondata.

L’ordinanza di rimessione prende in esame la citata pronuncia di legittimità ed esattamente la considera «un precedente orientato nel senso della interpretazione letterale».

In tale pronuncia il rimettente trova conferma della premessa interpretativa del suo dubbio di legittimità costituzionale, che sia cioè impossibile applicare all’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza della società cooperativa un limite quantitativo di sofferenza debitoria testualmente previsto per la dichiarazione di fallimento.

Orbene, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità della questione incidentale di legittimità costituzionale è sufficiente che il giudice a quo abbia consapevolmente escluso la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, sulla base del tenore letterale della disposizione censurata (da ultimo, sentenze n. 34 e n. 19 del 2022, n. 204, n. 172, n. 61 e n. 45 del 2021, n. 218 e n. 158 del 2020).

5.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

6.– Come questa Corte ha evidenziato fin dalla sentenza n. 408 del 1989, la rilevanza costituzionale della cooperazione trova la sua ragion d’essere «nella più stretta inerenza che la “funzione sociale” presenta nell’organizzazione cooperativistica rispetto a quella che la detta funzione riveste nelle altre forme di organizzazione produttiva».

Nonostante la multiforme articolazione che ha assunto nel concreto dell’esperienza economica, il modello cooperativistico tiene per sé una vocazione affatto peculiare, quale strumento elettivo di integrazione sociale, specificità riconosciuta anche a livello europeo, tramite il Regolamento (CE) n. 1435/2003 del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativo allo statuto della Società cooperativa europea (SCE).

Come nel corso fisiologico della sua esistenza, così nella fase patologica della crisi, la società cooperativa, quand’anche esercente un’attività commerciale, non è perfettamente assimilabile a una società lucrativa, ma conserva rispetto ad essa profili di specificità, che non possono essere superati in forza di un generico richiamo alla parità di trattamento tra operatori economici.

6.1.– La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che la mutualità cooperativistica può avere gradazioni diverse, che vanno dalla mutualità “pura”, caratterizzata dall’assenza di qualsiasi scopo di lucro, propria delle società cooperative a mutualità prevalente di cui all’art. 2512 cod. civ., alla mutualità “spuria”, orientata a una maggiore dinamicità operativa anche nei confronti di terzi non soci, riferibile alle società cooperative “diverse”; e questo perché il fine mutualistico è conciliabile con il lucro “oggettivo”, vale a dire con l’economicità della gestione, quale tendenziale proporzionalità tra costi e ricavi, mentre è incompatibile con obiettivi di lucro “soggettivo” (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 24 marzo 2014, n. 6835, e ordinanza 10 ottobre 2019, n. 25478).

Pertanto, anche la società cooperativa a mutualità “spuria”, esercente un’attività commerciale e quindi soggetta anche a fallimento a norma dell’art. 2545-terdecies cod. civ., non cessa di rappresentare un’entità differente dalla società lucrativa, finalizzata al profitto soggettivo.

Ciò si manifesta inequivocabilmente nella circostanza che essa resta soggetta a liquidazione coatta amministrativa, e non soltanto per causa di insolvenza, ai sensi del medesimo art. 2545-terdecies cod. civ., ma anche in conseguenza di uno scioglimento per atto dell’autorità di vigilanza, come prevede l’art. 2545-septiesdecies cod. civ. nell’ipotesi in cui la cooperativa non persegua lo scopo mutualistico o non depositi per due anni consecutivi il bilancio di esercizio ovvero non compia atti di gestione.

6.2.– L’assoggettabilità della cooperativa esercente attività commerciale alla procedura di liquidazione coatta amministrativa è indice sicuro della persistente rilevanza pubblicistica del tipo societario.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la liquidazione coatta amministrativa si connota appunto per gli interessi pubblici che tutela e che la differenziano sotto molteplici aspetti dal fallimento. È infatti una procedura relativa a imprese che, pur operando nell’ambito del diritto privato, attengono a particolari settori economici, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o che sono in rapporto di complementarità teleologico-organizzativa con la pubblica amministrazione (da ultimo, sentenze n. 22 del 2021 e n. 12 del 2020).

6.3.– D’altronde, solo in un contesto pubblicistico trova spiegazione il sistema di vigilanza amministrativa che l’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 2 agosto 2002, n. 220 (Norme in materia di riordino della vigilanza sugli enti cooperativi, ai sensi dell’articolo 7, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, recante: «Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore»), appronta con riferimento a «tutte le forme di società cooperative».

Infatti, che l’insolvenza della società cooperativa possa essere accertata in sede di vigilanza amministrativa, agli effetti della sottoposizione a liquidazione coatta, come si evince dall’art. 12, comma 1, lettera e), del d.lgs. n. 220 del 2002, conferma che la crisi funzionale dell’ente mutualistico, anche se “spurio”, involge interessi estranei all’insolvenza di un comune soggetto di impresa.

6.4.– L’evocazione del parametro di cui all’art. 3 Cost. risulta quindi impropria, in quanto gli estremi in comparazione sono eterogenei.

Le soglie fissate dagli artt. 1, secondo comma, e 15, nono comma, della legge fallimentare concernono la dichiarazione di fallimento, mentre l’art. 202 della medesima legge riguarda la dichiarazione di insolvenza, e, come da questa Corte osservato nella sentenza n. 301 del 2005, l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza di una società in liquidazione coatta amministrativa non può essere comparato con la dichiarazione di fallimento.

Le due dichiarazioni giurisdizionali sono equiparate dal legislatore solo per alcuni specifici effetti, cioè – come visto – ai fini dell’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari e della configurabilità di determinate fattispecie penali.

Si tratta di effetti che si dispiegano nell’ambito dei controlli ex post e che trovano giustificazione in esigenze pubblicistiche di maggiore tutela, ora del ceto creditorio rispetto agli atti pregiudizievoli, ora dell’ordine pubblico economico rispetto a fatti di reato.

6.5.– È da considerare che anche le cooperative a mutualità “spuria” godono di agevolazioni normative, non esclusi rilevanti benefici fiscali, questi ultimi in deroga all’art. 223-duodecies, sesto comma, delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, che ne fa riserva alle cooperative «a mutualità prevalente», definite dall’art. 2512 cod. civ.

In tal senso provvede, ad esempio, l’art. 1, comma 464, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)», riguardo al principale vantaggio tributario della società cooperativa, cioè la detassazione degli utili destinati a riserva indivisibile: seppure in misura ridotta, questo beneficio è concesso anche alle società cooperative a mutualità non prevalente, in quanto esse stesse, accantonando risorse sottratte per statuto al godimento dei soci, si configurano come enti di creazione di ricchezza intergenerazionale, devoluta tramite i fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

Anche da questo punto di vista, risultano giustificate verifiche più incisive nella fase della crisi di impresa, onde garantire un utilizzo non distorto delle misure di favore, a salvaguardia dell’interesse dei fondi mutualistici, ai quali i residui patrimoniali sono destinati per statuto, appunto in funzione dell’accesso ai regimi agevolativi.

6.6.– La denuncia sollevata dal Tribunale di Udine per violazione dell’art. 3 Cost. tradisce quindi una visione “atomistica” della realtà giuridica della società cooperativa, all’interno della quale è spezzato il nesso tra benefici e controlli.

Anche il richiamo ai meccanismi di composizione e liquidazione previsti dalla legge n. 3 del 2012 si rivela improprio, in quanto postula che l’insolvenza di un’impresa di economia sociale – qual è la società cooperativa – possa essere equiparata, su basi strettamente economico-patrimoniali, all’insolvenza di un mero debitore civile.

7.– Del pari, quando denuncia un’elusione dell’impegno della Repubblica in favore della cooperazione, il rimettente evoca l’art. 45 Cost. per una parte soltanto («[l]a legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei»), senza considerare l’intero mandato costituzionale («e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità»).

Questa Corte ha in più occasioni riconosciuto al legislatore ampia discrezionalità nella scelta dei «mezzi più idonei» di incremento della cooperazione (sentenza n. 334 del 1995; ordinanze n. 19 del 1988 e n. 371 del 1987).

A conferma che il favor per la cooperazione debba essere inteso in senso complessivo, non particellare, e che comunque esso non si traduca in una sommatoria di prerogative, si è anzi ritenuto che il legislatore possa, in questo settore, perseguire obiettivi sistemici anche attraverso l’imposizione di oneri (sentenza n. 149 del 2021).

Allora, la tutela rafforzata del ceto creditorio e dell’ordine pubblico economico connessa all’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza della società cooperativa può agevolmente ricondursi agli «opportuni controlli» raccomandati dall’art. 45 Cost., in base ad un non irragionevole bilanciamento legislativo tra mezzi di promozione e istanze di vigilanza, con conseguente insussistenza della denunciata violazione.

8.– In conclusione, entrambe le questioni devono essere dichiarate non fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 202, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 45 della Costituzione, dal Tribunale di Udine, sezione seconda civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Stefano PETITTI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2022.

Il Direttore della Cancelleria